Ducange
Definizione di «Lex» in Ducange, Glossarium ad scriptores mediae et infimae latinitatis, vol. 4, 1733.

La situazione d’emergenza che stiamo vivendo ha spronato alla lettura di normative in frequente mutamento, spesso con il riscontro di qualche difficoltà nell’interpretazione e un po’ di confusione, ma abbiamo scoperto grazie a testi digitalizzati e disponibili online che lo stesso succedeva anche nel Trecento e nel Quattrocento.

Per fronteggiare la situazione si è ricorso al lavoro agile e al digitale per attività fin ora svolte in presenza.

A tal proposto le istituzioni pubbliche ed enti privati, per agevolare i propri utenti, studenti e ricercatori, ormai impossibilitati a fruire fisicamente delle risorse necessarie, hanno reso disponibile parte del proprio patrimonio sul proprio sito.

Un esempio recente riguarda l’Archivio di Stato di Milano che a fine settembre ha presentato il portale Digitasmi con le riproduzioni digitali di alcuni fondi:

  • Atti di governo, Araldica registri;
  • Carteggio Sforzesco, Carteggio interno (limitatamente agli anni 1448 – 1452);
  • Distretto militare di Lodi, Rubriche;
  • Miscellanea mappe e disegni, Arrotolate;
  • Stemmario di Marco Cremosano.

L’Archivio, tramite la propria pagina Facebook, segnala le proprie iniziative e anche alcune curiosità presenti nei materiali conservati presso l’istituto. Alcune riproduzioni digitali sono state anche fornite per arricchire voci di Wikipedia.

Proprio partendo dalla presenza online di digitalizzazioni di libri e manoscritti di numerose istituzioni, abbiamo chiesto al nostro collega Michele Casanova, data curation specialist, di raccontare alcuni aneddoti curiosi, che mostrano come anche in passato l’interpretazione di norme e di ordini non risultasse sempre semplice.

Richieste di chiarimento

In alcuni casi le amministrazioni locali si rivolsero all’autorità centrale per ottenere chiarimenti su alcune norme.

Con lettera del febbraio del 1360 Galeazzo Visconti, al fine di evitare che i ricchi potessero uccidere qualcuno pagando solo una multa, ordinò che in tutti i territori soggetti fosse applicata la norma degli statuti di Milano che prevedeva la pena di morte per gli omicidi. L’amministrazione di Pontremoli chiese spiegazioni, perché la copia del testo ricevuta si riferiva solo a Milano; la risposta, con tono forse un po’ paternalistico, spiegò che la copia inviata era quella degli statuti di Milano e che loro avrebbero dovuto sostituire nel testo la parola «Milano» con «Pontremoli» (Pontremuli statutorum ac decretorum volumen, Parma, 1571, 151rv).

Altre richieste all’autorità centrale riguardavano invece aspetti più generali. Nel 1371 a Reggio Emilia nelle controversie legali alcuni cittadini chiedevano l’applicazione degli statuti locali appena riformati, mentre altri pretendevano l’applicazione dei decreti inviati da Milano; l’amministrazione di Reggio si rivolse allora a Bernabò Visconti per sapere come comportarsi. Con una lettera del dicembre di quell’anno Bernabò chiarì che in giudizio dovevano essere osservati i suoi decreti e, solo in casi non previsti dai decreti, dovevano essere considerati gli statuti locali e, infine, il diritto comune.

De iustitia
Raffigurazione di ufficiali coinvolti nell’amministrazione della giustizia in Guillaume Le Rouillé, De iustitia & iniustitia, Lyon, 1529 – Immagine originale distribuita da Yale Law Library con licenza CC BY 2.0

Definizione di termini

Nel corso del tempo si assisteva anche a modifiche di definizione.

Negli statuti criminali di Brescia del 1355, di Cremona del 1355-1356, di Lodi del 1390 e di Treviglio del 1392 (tutti derivati dalle norme di Milano) il termine «assassinus» era definito per distinguerlo dall’omicida e indicava colui che, in cambio di una ricompensa, aveva ucciso qualcuno oppure lo aveva percosso con fuoriuscita di sangue, ma anche chi aveva commissionato il delitto. Nella versione degli statuti di Milano del 1396 la definizione fu ristretta a chi aveva compiuto un omicidio dietro ricompensa e al committente, eliminando il caso di percosse.

Sempre negli statuti di Milano e di altri centri c’era un’antica norma che stabiliva la condanna a morte per il «plagiarius»; il termine era riconducibile al diritto romano ed era utilizzato per indicare chi vendeva o riduceva in schiavitù un uomo libero. Nel Trecento il giurista Bartolo da Sassoferrato specificò che non dovevano essere inclusi in questa casistica i nani, i cantori e i servitori che cardinali e uomini importanti si scambiavano in dono.

Altro termine particolare era «trabutare», che compare in una breve norma degli statuti di Milano senza alcuna apparente definizione; era solo stabilito che la relativa punizione doveva essere pecuniaria a discrezione del podestà. Stando a un manuale giuridico stampato nel Seicento la norma si riferiva all’imprigionare indebitamente qualcuno e in effetti le altre norme più vicine nel testo riguardano i limiti entro i quali qualcuno poteva essere imprigionato e le pene per i sequestri. Sempre a Milano, però, il termine si trova anche con un altro significato: nel 1385 i macellai inviarono una supplica contro gli abusi degli ufficiali delle vettovaglie, sostenendo di essere “trabutati” indebitamente e, nel caso rifiutassero di essere “trabutati”, erano accusati falsamente; apparentemente si intendeva una forma di estorsione da parte degli ufficiali. Un significato simile si trova anche in altri luoghi (ad esempio negli statuti di Agliè del 1448). In altri casi però sembra riferito alla corruzione di pubblici ufficiali.

Problemi di lingua

Nella seconda metà del Quattrocento il duca di Ferrara richiese al proprio segretario di procurargli uno sparviero per la caccia; il segretario inviò l’ordine al podestà di Carpineti con una breve comunicazione in latino: «Dilectissime noster, capias accipitrem et mitte nobis ligatum in uno sacculo ne aufugiat» («Dilettissimo nostro, cattura sparviero e inviacelo legato in un sacco perché non fugga»).

Corio
Bernardino Corio nel 1501 pubblicò la storia di Milano in volgare e non in latino; fu criticato per aver usato una lingua simile a quella dei «facchini della Valtellina» – Immagine di pubblico dominio, Library of Congress, Rare Book and Special Collections Division

Il podestà, conoscendo poco il latino, interpretò “accipitrem” non come “sparviero” ma come “arciprete” (chiese anche conferma al proprio genero, che gli diede ragione). Il sacerdote fu perciò convocato e, nonostante le comprensibili proteste, fu messo in un sacco. Il podestà si presentò così al segretario del duca, che rimase stupito e chiese spiegazioni; il podestà mostrò l’ordine ricevuto. Il segretario comprese l’equivoco e spiegò allora al podestà e all’arciprete che il duca aveva cambiato idea e che potevano tornare a casa. Da allora fu stabilito che le comunicazioni fossero in volgare e non più in latino per evitare ulteriori problemi agli arcipreti.

Questo episodio è in realtà una delle facezie scritte da Ludovico Carbone (1430-1485), ripresa anche in epoche successive cambiando nomi e luoghi. È però una testimonianza della trasformazione linguistica in atto nella seconda metà del Quattrocento con passaggio dal latino al volgare anche in ambito amministrativo, probabilmente per evitare alcuni dei problemi di interpretazione delle norme.

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